«Teoria gender» a scuola? No, solo educazione al rispetto di tutti

rispetto

 

di Vittorio Lingiardi*

Ma che cosa dobbiamo fermare? La diffusione di teorie che, come afferma un autorevole e unanime pronunciamento dell’Associazione Italiana di Psicologia:

– fanno «chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività»,
– offrono «occasioni di crescita personale e culturale ad allievi e personale scolastico»,
– riducono «le discriminazioni basate sul genere e l’orientamento sessuale nei contesti scolastici»,
– contrastano, con corrette metodologie didattico-educative, il dilagare di «fenomeni come bullismo omofobico, discriminazione di genere, cyberbullismo»,
– valorizzano «una cultura dello scambio, della relazione, dell’amicizia e della nonviolenza»?

Oppure le affermazioni di:

leader politici che chiedono di fermare l’immigrazione, in particolare dai paesi musulmani (in quanto musulmani), paragonano una ministra a un orango o auspicano che i campi rom siano rasi al suolo?
– dirigenti sportivi che, riferendosi a squadre di calcio femminile, dicono «basta dare soldi a queste quattro lesbiche»?
– esponenti religiosi che paragonano il matrimonio tra persone dello stesso sesso a una «vera aggressione, per non dire uno stupro, di ciò che il matrimonio rappresenta»?

Dovremmo impedire le trasformazioni sociali e giuridiche che, dagli Stati Uniti alla Spagna, dal Canada alla Germania, dal Messico alla Francia, dall’Argentina all’Olanda, hanno posto fine all’esistenza di cittadinanze minori e di affetti spogliati di dignità simbolica e sociale?
Da fermare non sarebbe invece la parola dell’odio («hate speech»)? Che, si badi bene, non è libertà di parola («free speech»), bensì parola che attacca e offende un individuo o un gruppo sociale sulla base di caratteristiche come il colore della pelle, l’appartenenza religiosa, il genere, l’orientamento sessuale. Parola di odio che può diventare incitamento e a volte crimine («hate crime»).
Qual è l’«emergenza educativa» che spinge alcune associazioni cattoliche a promuovere petizioni apocalittiche? Che induce un Sindaco a chiedere il ritiro di testi custoditi in biblioteche scolastiche? È davvero in atto un’«offensiva gender»? È giustificabile razionalmente la diffusione di spot che mostrano immagini volutamente sgradevoli di omo e transessuali mentre una voce fuori campo domanda «vuoi questo per i tuoi figli»?

Cosa ci deve preoccupare: il diffondersi di una logica di paura e di sospetto che si placa solo con l’espulsione delle differenze oppure l’affermarsi di una cultura animata da desiderio di conoscenza, tensione al rispetto e all’incontro, pratica di una ragionevole inclusività? Perché ha dato più scandalo la lettera garbata di un organo governativo, l’Unar (incaricato dalle normative europee della sorveglianza sulle discriminazioni razziali), che l’esternazione politica (che stigmatizzava un’intera comunità religiosa come intrinsecamente violenta) che l’ha suscitata?

Ma torniamo all’«ideologia gender»: non esiste. È stato detto in tutti modi e da cattedre autorevoli. Esistono, al contrario, studi scientifici che hanno contribuito alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale. Il contributo scientifico di questi studi si affianca a quanto già riconosciuto, da più di quarant’anni, da tutte le associazioni internazionali che promuovono la salute mentale (tra queste, l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ecc.) e ribadisono, per esempio, che l’omosessualità altro non è che una variante normale non patologica della sessualità umana. In particolare, l’Unicef ha rimarcato la necessità di intervenire contro ogni forma di discriminazione nei confronti dei bambini e dei loro genitori basata sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere. Un’analoga policy è da tempo seguita dall’Unesco. Rispetto al bullismo omofobico, esiste un’imponente letteratura scientifica (si veda per esempio il volume Bullismo omofobico di Ian Rivers) sui gravi effetti del fenomeno, a breve e a lungo termine, che comprendono dispersione scolastica, disturbi post-traumatici, ansia, depressione, ideazione suicidaria, suicidio.

Ma i militanti e le militanti «anti-gender» non la vedono così. La loro paura principale è che venga negato «il fondamento oggettivo della differenza e della complementarità dei sessi». E anche alcuni esponenti della Chiesa hanno evocato il rischio di «edificare un transumano in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità». Il nodo centrale, da cui scaturiscono le paure e le angosce di alcuni genitori e cittadini, è una confusione fondamentale tra il piano psicologico, sociale e culturale, e quello biologico. La nozione che per fare un figlio sono necessari una femmina e un maschio (in realtà un ovulo e uno spermatozoo) viene trasformata in quella più insidiosa per cui per fare un figlio sono necessari un vero uomo e una vera donna, entrambi non solo ovviamente eterosessuali, ma anche perfettamente riconducibili a stereotipi di genere (e guai a mettere un ferro da stiro giocattolo in mano a un maschietto).

I gender studies non negano l’esistenza di un sesso biologico assegnato alla nascita, né la sua influenza sulle nostre vite. Mostrano però che il sesso biologico da solo non basta a definire ciò che siamo. La nostra identità (sessuale) è infatti una realtà complessa e dinamica, un mosaico composto dalle categorie di sesso, genere, orientamento sessuale e ruolo di genere. Basterebbe studiare che:
il sesso è determinato biologicamente (maschio, femmina; o intersessuale, cioè nato con caratteristiche anatomo-fisiologiche sia maschili sia femminili);
il genere è un costrutto socio-culturale, cioè il nostro sviluppo come uomini e donne è fortemente modellato da fattori non biologici che condizionano l’espressione di
ruoli di genere che rispondono ad aspettative relativamente a ciò che è femminile vs. maschile. Non a caso, epoche e culture diverse, costruiscono e propongono ruoli di genere diversi.
– Esiste infine un’identità di genere, che riguarda il nostro sentirci uomo o donna, e non sempre coincide con la nostra appartenenza biologica: da qui le realtà che la comunità scientifica oggi definisce disforie di genere e il linguaggio comune chiama transgender (vs. cisgender)
– altra cosa è infine l’orientamento sessuale, che riguarda la nostra attrazione per individui del nostro sesso, dell’altro sesso o di entrambi i sessi (bisessualità).

È bene avere queste distinzioni in mente. La realtà, infatti, è più complessa di come la dipingono i militanti anti-gender, ma anche meno angosciante. Occorrono narrazioni capaci di dare umanità e inventiva a tematiche che rischiano di essere oscurate dall’ideologia. Una di queste è Piccolo Uovo, di Francesca Pardi. Un libro che racconta la storia di un uovo che, per conoscere in quale famiglia nascerà, intraprende un viaggio nelle diverse tipologie di famiglia, comprese quelle fatte da due mamme o da due papà. È una favola bella, una sorta di trasposizione narrativa di ciò che possiamo leggere, per esempio, nel libro di Susan Golombok Modern families (a breve in traduzione italiana per l’editore Edra) che, come giustamente dichiara l’autrice, nasce dal bisogno reale di rispondere alle domande dei bambini.

Nel 2012 Piccolo Uovo ha vinto il premio Andersen, ma è finito comunque nella lista di proscrizione ed è stato allontanato dalle biblioteche scolastiche di Venezia. Se lo sapesse il povero Hans Christian, che con la sua Sirenetta ha creato una meravigliosa favola per un amore sofferto e impossibile: quello che provava per il giovane Edvard Collins. Tutte le favole di Andersen (Il soldatino di stagno, La piccola fiammiferaia, Il brutto anatroccolo) hanno come protagonisti dei «diversi». Cosa dovrebbero fare le favole, del resto, se non educare alle varietà? Alle forme varie e tra loro diverse di vita? Perché i bambini non dovrebbero sapere? Non devono forse sapere che la Terra gira intorno al Sole? Perché nascondere e deformare qualcosa che può riguardarli da vicino?

Genitori poco documentati e male informati da una propaganda sistematica finiscono per spaventarsi, temendo per esempio che da quest’anno i programmi scolastici insegneranno la masturbazione, la penetrazione, l’accoppiamento gay. Che ai bambini verrà insegnato a essere bambine, e alle bambine a essere bambini, e agli uni e alle altre a «diventare» omosessuali, secondo i dettami della «propaganda gender».
La paura e il disgusto che, in forma «proiettiva», quindi paranoidea, rappresentano come spiega la filosofa Martha Nussbaum (Disgusto e Umanità) la cinghia di trasmissione argomentativa che produce, di volta in volta (ma di solito tutti insieme), xenofobia, razzismo, antisemitismo, misoginia, omofobia, transfobia.

Meno male che ci sono addetti ai lavori (medici, psichiatri, pediatri, psicologi, giuristi, insegnanti, ecc) che si impegnano, spesso sottraendo tempo e energie alle loro professioni e alle loro ricerche, a riportare conoscenza e razionalità.

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Fonte | 27esimaora.corriere.it