La morte di Dalla e la nuova pietà

Ho sempre pensato che non c’è niente di più inutile e fastidioso della retorica post mortem. Mi ricorda il pianto delle prefiche. Tutti a parlar bene, a rintracciare una straordinarietà della vita di chi non c’è più in un momento che ammette solo il silenzio. Nel caso di personaggi pubblici, tale retorica è ancora più fastidiosa perché gridata dai media.
Premetto questo perché parlerò di Lucio Dalla, ma non parlerò di lui e di tutte le critiche e le polemiche che possono nascere ancora, quelle già in corso e quelle che nasceranno di sicuro sulla sua omosessualità: dirò di più, penso che il cantante non avesse nemmeno avuto il “dovere” al coming out. Ognuno conosce la sua storia, ognuno vive dentro la propria pelle. Chi siamo noi a ergerci giudici della vita degli altri? Soprattutto se esser giudicati ci ha toccati in primo luogo, in un’altra vita.
Eppure questa vicenda apre alcune riflessioni che abbracciano il tema della visibilità e dell’indifferenza.
Siamo una minoranza peculiare, più “diversa” delle altre. Se un nero o un ebreo le prende a scuola, poi a casa trova i suoi simili ad accoglierlo, ad abbracciarlo, a consolarlo. Se un gay le prende a scuola, a casa rischia di prenderle ancora. Questo significa che ancora oggi essere gay o lesbiche fa una differenza.
Gli insulti, le risatine, il disprezzo della gente molto spesso spariscono – almeno questa è l’esperienza di chi scrive – non appena si verbalizza l’evidenza sino a quel momento stigmatizzata: «Sì, sono gay. Problemi?». Il mondo, non appena si accorge dell’ “anomalia” cerca di ricondurla nei ranghi, strettissimi, del dileggio e della repressione. Ma se noi strappiamo di bocca, a quel mondo, la realtà pronunciata male per dire, a parole nostre, la felicità di cui siamo capaci, il mondo cambia, in un modo o nell’altro.

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Fonte | mariomieli.net

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